La confisca diretta del denaro sul conto corrente e la prova della sua provenienza lecita

La confisca è disciplinata in via generale dall’art. 240 c.p., che la definisce come quella misura di sicurezza patrimoniale che consiste nell’espropriazione, da parte dello Stato, di beni attinenti a un reato o in sé criminosi. 

L’applicazione della confisca presuppone la pericolosità della cosa, ossia la probabilità che la stessa, se lasciata nella disponibilità del reo, possa essere utilizzata per la commissione di ulteriori reati. Nei casi di cui all’art. 240 comma 1 Codice Penale la ricorrenza di tale presupposto dev’essere accertata in concreto dal giudice: si parla, pertanto, di confisca facoltativa. Vi sono, però, anche ipotesi (elencate dall’art. 240 comma 2 Codice Penale) in cui la pericolosità della cosa è presunta: ci si riferisce alle cose che costituiscono il prezzo del reato, ai beni e strumenti informatici o telematici impiegati per commettere reati informatici, alle cose intrinsecamente criminose; in tali casi, si parla di confisca obbligatoria, la quale, diversamente da quella facoltativa, può talvolta prescindere dalla pronuncia di una sentenza di condanna e può talvolta avere ad oggetto anche cose appartenenti a persone estranee al reato.

Accanto all’ipotesi generale di confisca di cui all’art. 240 Codice Penale, l’ordinamento prevede anche alcune ipotesi speciali. 

È il caso, per esempio, della confisca per equivalente: a essa si ricorre quando non è possibile la confisca diretta dei proventi dell’attività delittuosa, perché questi non sono stati rinvenuti o sono stati distrutti o per qualunque altro motivo. In tali casi, per evitare che si radichi l’idea che “il crimine paga”, è talvolta prevista la possibilità di confiscare somme di denaro o altri beni di cui il reo abbia la disponibilità e che presentino un valore equivalente al prezzo, al profitto o al prodotto del reato.

Oggetto di tale forma di confisca, dunque, sono beni che, non avendo nulla a che fare con il commesso reato, non presentano il requisito della pericolosità: ecco perché la giurisprudenza considera la confisca per equivalente non una misura di sicurezza, ma una pena, con conseguente piena applicazione di quel principio di retroattività che l’art. 25 comma 2 Costituzione riserva alle pene e che è ritenuto solo in parte applicabile anche alle misure di sicurezza.

La confisca per equivalente, che ha natura obbligatoria, non ha portata generale, ma trova applicazione sono in relazione a specifici reati, come quelli tributari o quelli contro la Pubblica Amministrazione. 

In concreto non è sempre agevole stabilire se un determinato bene debba essere oggetto dell’ipotesi generale di confisca di cui all’art. 240 Codice Penale (anche detta confisca diretta), ovvero della confisca per equivalente. Trattasi di un quesito che non ha risvolti meramente teorici, ma anche e soprattutto pratici: per esempio, alla confisca diretta può farsi ricorso, come detto, in relazione a qualsiasi reato, mentre quella per equivalente è ammessa solo nei casi tassativamente previsti dalla legge.

Tale quesito si è posto in relazione alla confisca del denaro presente sul conto corrente dell’imputato: era infatti sorto un contrasto giurisprudenziale in ordine alla qualificazione di tale confisca in tutti i casi in cui il prezzo o il profitto del reato non sia un bene infungibile, ma sia proprio il denaro.

A dirimere questo contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Cassazione con sentenza n. 42415 del 18/11/21: oltre che della questione di cui si è detto, la Corte si è in tale sede occupata anche della possibile rilevanza che può assumere la prova, fornita dall’imputato, della provenienza lecita del denaro di cui è richiesta la confisca.

Ebbene, interrogate sul punto, le Sezioni Unite hanno affermato che, ove il pretium delicti consista in una somma di denaro, la relativa confisca va sempre qualificata come diretta, anche nei casi in cui essa non abbia per oggetto esattamente le medesime monete e banconote acquisite dal reo in conseguenza della sua attività delittuosa. Infatti, la fungibilità del denaro rende del tutto irrilevante l’identità delle singole monete e banconote che compongono un determinato ammontare: se questo corrisponde a quanto il reo ha conseguito come prezzo o profitto del reato, ciò è sufficiente a giustificarne la confisca.

Quest’ultima va qualificata come diretta in quanto essa è volta a «realizzare l’ablazione della somma che sia già entrata nel patrimonio dell’autore a causa della commissione dell’illecito ed ivi sia ancora rinvenibile». Al contrario, la confisca per equivalente ha la funzione di privare il reo di una somma di denaro che non costituisce direttamente il prezzo o il profitto del reato, ma l’equivalente monetario del diverso bene che il reo ha acquisito in conseguenza della propria attività delittuosa. Se, pertanto, tale bene è costituito ab origine da una somma di denaro, la confisca con cui essa viene appresa deve qualificarsi come diretta.

Da tale principio deriva un importante corollario, che costituisce una logica conseguenza della fungibilità che caratterizza il denaro: la prova, fornita dal reo in giudizio, della provenienza lecita dei supporti monetari concretamente oggetto di ablazione non ha alcuna efficacia impeditiva della confisca, proprio perché quest’ultima ben può andare a colpire banconote diverse da quelle concretamente acquisite con l’attività illecita. 

Affinché la confisca sia legittima, pertanto, è necessario e al tempo stesso sufficiente che i valori monetari che ne costituiscono l’oggetto siano di ammontare pari a quello entrato nel patrimonio dell’imputato per effetto del reato, a nulla rilevando l’eventuale origine lecita delle monete e delle banconote materialmente sottoposte al vincolo di indisponibilità.

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