Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici

Il delitto di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici è previsto dall’art. 3 d.lgs. 74/2000, che punisce con la reclusione da tre a otto anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, compiendo operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente, ovvero avvalendosi di documenti falsi o di altri mezzi fraudolenti idonei ad ostacolare l’accertamento e ad indurre in errore l’amministrazione finanziaria, indica in una delle dichiarazioni relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo o elementi passivi fittizi o crediti e ritenute fittizi.

In via preliminare, v’è da rilevare che le condotte di cui sopra sono punite ai sensi dell’art. 3 solo ove non ricorrano concretamente gli estremi della fattispecie di cui all’art. 2, che punisce con la reclusione da quattro a otto anni il diverso delitto di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti. È importante distinguere i due reati, dal momento che per quello di cui all’art. 2 è previsto un minimo edittale più elevato (quattro anni in luogo di tre) e, inoltre, non è prevista alcuna soglia di punibilità.

L’art. 3 in esame descrive una condotta bifasica: da un lato, infatti, si richiede che il contribuente presenti una dichiarazione fiscale non veritiera; dall’altro lato, tale condotta dev’essere necessariamente preceduta da attività fraudolente di supporto, che possono assumere tre diverse conformazioni tra loro alternative, nel senso che, affinché il reato possa dirsi integrato, è necessario e al tempo stesso sufficiente che ricorra una sola di tali condotte prodromiche alla presentazione di una falsa dichiarazione.

La prima condotta rilevante consiste nel compimento di operazioni simulate oggettivamente o soggettivamente: trattasi del caso in cui il contribuente faccia figurare il compimento di un negozio giuridico diverso, per esempio con riferimento al prezzo, da quello realmente concluso tra le parti (operazione oggettivamente simulata), oppure del caso in cui faccia figurare che l’operazione è intercorsa tra soggetti diversi da quelli reali, il che generalmente accade quando si fa ricorso al meccanismo dell’interposizione (operazione soggettivamente simulata).

La seconda condotta menzionata dall’art. 3 consiste nell’utilizzo di documenti falsi. Deve trattarsi, ovviamente, di documenti diversi da quelli menzionati dall’art. 2 (ossia fatture e documenti aventi analoga rilevanza), purché a essi sia riconosciuto un rilievo probatorio analogo a quello delle fatture, le quali – si rammenta – se non sono contestate costituiscono un valido elemento di prova delle prestazioni eseguite e del credito che su di esse si fonda. A titolo meramente esemplificativo, la giurisprudenza include tra i documenti rilevanti ai sensi dell’art. 3 le note di variazione IVA, le autofatture, i titoli di accesso emessi dalle imprese operanti nel settore dello spettacolo, le ricevute emesse dai lavoratori autonomi occasionali, etc.

Terza e ultima condotta rilevante consiste nell’utilizzo di altri mezzi fraudolenti idonei a ostacolare l’accertamento e a indurre in errore l’amministrazione finanziaria: trattasi di una formula di chiusura in cui il legislatore ha inteso includere tutte quelle condotte, non espressamente menzionate dalla norma incriminatrice, le quali assumano una concreta valenza ingannatoria tale da rendere meno agevoli le attività accertative dell’amministrazione finanziaria.

Diversamente dall’art. 2, l’art. 3 subordina la punibilità delle condotte ivi previste al superamento di una doppia soglia di punibilità: da un lato, infatti, ciascuna imposta evasa dev’essere superiore a €.30.000; dall’altro lato, gli elementi attivi sottratti all’imposizione devono superare il 5% dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione ovvero devono ammontare a più di €.1.500.000; con riferimento, invece, ai crediti e alle ritenute fittizie in diminuzione dell’imposta, il loro ammontare dev’essere superiore al 5% dell’imposta stessa o ad €.30.000. 

Relativamente all’elemento soggettivo, è richiesto il dolo specifico consistente nella finalità di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto: qualora, dunque, le condotte di cui all’art. 3 fossero realizzate per altri fini (per esempio per non far emergere parte degli utili, così da indurre un socio di minoranza a svendere la propria quota), il reato in parola non dovrebbe ritenersi integrato.

Il d.l. 124/2019, oltre a inasprire il trattamento sanzionatorio previsto per il reato de quo, ha introdotto nel d.lgs. 74/2000 l’art. 12-ter, che prevede, in caso di condanna o patteggiamento per le condotte di cui all’art. 3 che superino la soglia di €.100.000 di imposta evasa, l’applicabilità della confisca allargata di cui all’art. 240-bis c.p. Tale confisca consiste nell’ablazione del denaro, dei beni e delle altre utilità di cui il condannato non possa giustificare la provenienza e di cui risulti avere la disponibilità in misura sproporzionata rispetto al reddito dichiarato o all’attività economica svolta. Ai sensi dell’art. 578-bis c.p.p., inoltre, tale confisca può essere applicata anche se, in sede di appello o di cassazione, il reato sia dichiarato estinto per prescrizione o amnistia, purché il giudice proceda a un previo accertamento della penale responsabilità dell’imputato.

Infine, v’è da rilevare che il delitto in parola costituisce uno dei presupposti della responsabilità amministrativa da reato degli enti ai sensi del d.lgs. 231/2001: qualora, dunque, le condotte di cui all’art. 3 siano state tenute nell’interesse o a vantaggio di un ente, quest’ultimo potrà vedersi applicata la sanzione pecuniaria fino a cinquecento quote, nonché le sanzioni interdittive del divieto di contrattare con la Pubblica Amministrazione, dell’esclusione da agevolazioni, finanziamenti, contributi o sussidi o della revoca di quelli già concessi, nonché del divieto di pubblicizzare beni o servizi. 

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