Il reato di omesso versamento dei contributi previdenziali

L’art. 2 d.l. n. 463/1983 sancisce l’obbligo per il datore di lavoro di versare le ritenute previdenziali e assistenziali operate sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti. Ai sensi del comma 1-bis di tale norma, «l’omesso versamento delle ritenute di cui al comma 1, per un importo superiore a euro 10.000 annui, è punito con la reclusione fino a tre anni e con la multa fino a euro 1.032. Se l’importo omesso non è superiore a euro 10.000 annui, si applica la sanzione amministrativa pecuniaria da euro 10.000 a euro 50.000. Il datore di lavoro non è punibile, né assoggettabile alla sanzione amministrativa, quando provvede al versamento delle ritenute entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione».

Trattasi, innanzitutto, di un reato proprio, dal momento che può essere commesso esclusivamente dal datore di lavoro in quanto soggetto obbligato a versare agli enti previdenziali e assistenziali le ritenute operate sulle retribuzioni dei dipendenti.

Il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice è costituito dal patrimonio dello Stato e, più precisamente, dall’equilibrio del sistema di protezione sociale, che risulterebbe seriamente compromesso qualora i datori di lavoro non ottemperassero all’obbligo di cui all’art. 2 d.l. n. 463/1983.

Con riferimento all’elemento soggettivo, è sufficiente il dolo generico, inteso come consapevolezza e volontà di non adempiere l’obbligo di versamento delle ritenute: è invece irrilevante, ai fini della configurabilità del reato, che con la condotta omissiva il datore di lavoro persegua scopi ulteriori.

La norma incriminatrice prevede una soglia di punibilità pari a 10.000 euro annui: se, pertanto, l’omesso versamento ha ad oggetto cifre inferiori, il reato in parola non potrà dirsi integrato e la condotta del datore di lavoro rileverà solo come illecito amministrativo assoggettato alla sanzione pecuniaria da 10.000 a 50.000 euro.

Come spesso accade quando la legge subordina la punibilità di determinate condotte al superamento di una soglia numerica, anche con riferimento al reato in esame ci si è chiesti se a esso sia applicabile l’istituto dell’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131-bis c.p.: un simile quesito, ovviamente, si pone relativamente a superamenti marginali della soglia di 10.000 euro annui fissata dalla norma incriminatrice.

Sul punto, mentre la dottrina appare divisa, la giurisprudenza sembra esprimersi in maniera pressoché unanime a favore dell’applicabilità dell’art. 131-bis c.p. anche al reato de quo e, in generale, a tutti i reati per i quali sia prevista una soglia di punibilità: è stato infatti statuito che «la causa di non punibilità della “particolare tenuità del fatto” è applicabile, in presenza delle condizioni ivi previste, a tutte le tipologie di reato, non essendo previste esclusioni specifiche, ed è certamente applicabile anche ai reati per i quali il legislatore ha previsto una soglia di punibilità» (Cass. pen., n. 25537/2019).

Inoltre, diversamente dal passato, oggi la norma incriminatrice non punisce le singole omissioni mensili, ma fonda la punibilità della condotta sull’importo annuo che non è stato versato. Ciò costituisce una notevole differenza rispetto alla previgente disciplina, che faceva corrispondere ad ogni omissione mensile l’integrazione di un autonomo reato, con la conseguenza che la reiterazione, mese per mese, delle singole omissioni veniva ritenuta sintomatica dell’abitualità della condotta e, quindi, ostativa all’applicazione dell’art. 131-bis c.p. Quest’ultima norma, infatti, subordina l’esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto al carattere non abituale del comportamento.

Attualmente, invece, come ha chiarito anche di recente la Corte di cassazione (n. 9909/2021), «deve considerarsi oramai superata la configurazione del reato in questione quale successione di diversi reati omissivi che si consumano all’inutile trascorrere delle singole scadenze previste per i pagamenti mensili, trattandosi, invece, di un reato unico».

Alla luce di quanto sopra, dunque, nulla impedisce di riferire la causa di esclusione della punibilità prevista dall’art. 131-bis c.p. anche al reato in esame, qualora, in considerazione del marginale superamento della soglia di 10.000 euro e delle altre circostanze presenti nel caso concreto, la condotta del datore di lavoro debba essere considerata particolarmente tenue. 

V’è da rilevare, infine, come la norma incriminatrice escluda la punibilità del datore di lavoro che, entro tre mesi dalla contestazione o dalla notifica dell’avvenuto accertamento della violazione, provveda ad effettuare il versamento. Trattasi di una causa sopravvenuta di esclusione della punibilità, con cui il legislatore intende premiare il datore di lavoro che, pur avendo commesso un fatto antigiuridico e colpevole, tenga successivamente una condotta che di fatto neutralizza l’offesa al bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice. 

Come si vede, il termine trimestrale entro cui può avere luogo tale condotta decorre dalla contestazione della violazione o dalla notifica del suo avvenuto accertamento. Può concretamente accadere, tuttavia, che né la contestazione né la notifica abbiano luogo: in simili ipotesi, secondo la giurisprudenza ormai unanime, il termine di cui sopra decorre dalla data della notifica del decreto di citazione a giudizio, purché esso contenga tutti gli elementi essenziali dell’avviso di accertamento. In un caso in cui il decreto di citazione non presentava tali requisiti, la Cassazione (n. 6045/2016) ha ritenuto legittimo il provvedimento con cui il giudice, disponendo il rinvio della trattazione del procedimento penale, aveva assegnato all’imputato un termine di tre mesi per consentirgli di versare il dovuto e di usufruire, così, della causa di esclusione della punibilità. 

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