I reati in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro

L’art. 2087 c.c. pone in capo al datore di lavoro l’obbligo di adottare tutte quelle misure e cautele che, tenuto conto della realtà aziendale e del progresso tecnologico, sono idonee a preservare l’integrità psicofisica dei lavoratori. Trattasi di un obbligo che discende anche dalla Costituzione e più precisamente dal combinato disposto degli artt. 2, 32 e 41, c. 2, Cost.: quest’ultima norma, in particolare, stabilisce che l’iniziativa economica privata non può svolgersi «in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana», così sancendo il diritto del lavoratore all’incolumità fisica e ad operare in un ambiente salubre.

Per dare attuazione al dettato costituzionale, il d.lgs. n. 81/08 – noto come “Testo unico in materia di salute e sicurezza nei luoghi di lavoro” – individua i sistemi di prevenzione e sicurezza sul lavoro che l’imprenditore è tenuto ad adottare e la cui mancata o inefficace adozione è sanzionata anche penalmente.

Tra le fattispecie delittuose maggiormente rilevanti in questa materia emerge certamente l’omicidio colposo commesso con violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro, che l’art. 589, c. 2, c.p. punisce con la reclusione da due a sette anni. Trattasi, più precisamente, del reato che si configura quando il decesso del lavoratore è causalmente determinato dalla condotta negligente del datore di lavoro che, in violazione della normativa antinfortunistica, non ha adottato efficaci misure di tutela dell’integrità fisica dei dipendenti. È pertanto necessario che tra la condotta colposa del datore di lavoro e l’evento morte vi sia un nesso di causalità, che la giurisprudenza tende a riconoscere anche nei casi in cui alla causazione dell’evento abbia contribuito la condotta imprudente del lavoratore stesso, a meno che non si tratti di una condotta assolutamente imprevedibile, eccentrica ed esorbitante dall’area del rischio propria dell’imprenditore. Queste ultime, comunque, sono ipotesi del tutto eccezionali, che la giurisprudenza ha ravvisato, per esempio, nel caso di un lavoratore che, introdottosi abusivamente in cantiere fuori dall’orario di lavoro, aveva rimosso la staccionata che circondava un vano destinato ad alloggiare l’ascensore di un edificio in costruzione ed era precipitato nel vuoto: solo in casi siffatti, dunque, la giurisprudenza riconosce che la condotta del lavoratore è, da sola, sufficiente a determinare l’evento, così escludendo il rapporto di causalità rispetto al comportamento datoriale ai sensi dell’art. 41, c. 2, c.p.

I medesimi principi valgono relativamente al delitto di lesioni colpose commesse con violazione delle norme antinfortunistiche (art. 590, c. 3, c.p.), l’unica differenza risiedendo nella minor gravità dell’evento cagionato dalla condotta negligente dell’imprenditore.

Ulteriore delitto previsto nella materia in esame è la rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, che l’art. 437 c.p. punisce con la reclusione da sei mesi a cinque anni. Tale norma individua due condotte distinte: la rimozione delle cautele e l’omissione delle stesse. Da tale bipartizione discendono conseguenze rilevanti in tema di soggetto attivo del reato: la prima condotta, infatti, può essere commessa da chiunque, trattandosi di condotta attiva; dell’omissione, invece, possono rispondere esclusivamente i soggetti che ricoprono la posizione di garanzia di cui all’art. 2087 c.c., ossia il datore di lavoro, il dirigente e il preposto alla sicurezza, in quanto su questi ultimi grava l’obbligo giuridico di impedire eventi pregiudizievoli per l’integrità psicofisica dei lavoratori.

Il secondo comma dell’art. 437 c.p. prevede una pena più elevata (reclusione da tre a dieci anni) qualora dalla condotta descritta dal primo comma derivi un disastro o un infortunio: analogamente a quanto si è detto a proposito dei primi due delitti analizzati, è anche in questo caso necessario accertare la sussistenza del nesso di causalità tra le condotte di cui al primo comma e gli eventi di cui al secondo.

Dal momento che l’art. 437 c.p. designa un reato doloso, l’ascrizione di penale responsabilità presuppone, in capo al soggetto attivo, la rappresentazione della finalità profilattica dei dispositivi rimossi o la cui adozione è stata omessa, nonché la coscienza e la volontà della rimozione o dell’omissione. In altri termini, il soggetto dev’essere consapevole della destinazione prevenzionistica degli oggetti materiali della sua condotta e deve volontariamente indirizzare quest’ultima alla rimozione di tali oggetti o alla loro mancata predisposizione.

Qualora, invece, non risultino integrati i presupposti della responsabilità dolosa in capo all’agente, a quest’ultimo potrà al massimo essere ascritto il meno grave delitto di omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro, che l’art. 451 c.p. punisce con la più mite pena della reclusione fino a un anno o della multa da 103 euro a 516 euro.

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