Anche i redditi provenienti da attività illecita devono essere dichiarati

Secondo quanto disposto dall’articolo 14 comma 4  Legge 537/93: “Nelle categorie di reddito di cui all’articolo 6, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con Decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, devono intendersi ricompresi, se in esse classificabili, i proventi derivanti da fatti, atti o attività qualificabili come illecito civile, penale o amministrativo se non già sottoposti a sequestro o confisca penale. I relativi redditi sono determinati secondo le disposizioni riguardanti ciascuna categoria”.

La ratio della norma è quella di parificare, ai fini dell’imposizione fiscale, i redditi prodotti in modo lecito da quelli che risultano derivanti da attività illecita.

Ma non è tutto; al fine di evitare che eventuali cavilli giuridici inerenti la corretta classificazione a livello reddituale dei proventi illeciti potesse portare ad una sottrazione degli stessi all’imposizione fiscale, la  novella introdotta dal Decreto Legge numero 223/2006, convertito con  modificazioni  dalla Legge 248/2006, ha disposto (con l’art. 36,  comma  34-bis) che, in deroga all’articolo 3 Legge 212/2000, la predetta  disposizione si  interpreta nel senso che i proventi illeciti ivi  indicati,  qualora  non  siano classificabili nelle categorie di  reddito  di  cui  all’articolo  6, comma 1, del Testo Unico delle imposte sui redditi di cui al D.P.R. 917/1986 sono comunque considerati come redditi diversi.

Sulla scorta della predetta normativa di riferimento la Giurisprudenza di legittimità si era già espressa sul tema della configurabilità del reato di dichiarazione infedele, previsto e punito dall’articolo 4 Decreto Legislativo 74/2000, laddove il contribuente ometta di includere, nella dichiarazione dei redditi a fini IRPEF, finanche quegli elementi attivi di reddito derivanti, appunto, da attività illecite, salvo il caso in cui questi ultimi non siano stati sottoposti a provvedimenti ablatori di natura penale (sequestro o confisca) nella stesso anno di imposta nel quale sono stati prodotti, poiché solo in tale ipotesi si determina, in relazione al principio di capacità contributiva delineato dall’articolo 53 Costituzione, una riduzione del reddito imponibile (veggasi sul punto Cass. Pen., sez. III, sentenza numero 18575/2020).

Ebbene, sulla scorta delle precedenti pronunce, la terza Sezione della Suprema Corte di Cassazione, con la sentenza numero 23079 del 14 giugno 2022, chiamata a decidere sulla rilevanza reddituale dei proventi del reato di truffa, ha affermato un interessante principio di diritto, ritenendo che il principio della rilevanza reddituale dei redditi da attività illecita trovi applicazione anche con riferimento al reato di omessa dichiarazione previsto e punito dall’articolo 5 Decreto Legislativo 74/2000.

In particolare, nella citata sentenza si legge: “Ebbene, ritiene il Collegio che tale principio sia estensibile ed applicabile, altresì, all’ipotesi di omessa dichiarazione ex articolo 5 D. Lgs. 74/2000; di talchè qualora risultino accertati redditi di natura diversa – e a fortiori qualora si tratti di redditi di derivazione illecita, come nel caso in esame – a meno non siano assoggettati a provvedimenti ablatori contestuali, essi dovranno essere dichiarati dal contribuente, costituendo conseguentemente base imponibile soggetta agli adempimenti fiscali stabiliti dalla legge”.

Del tutto pacifico, pertanto, ad oggi, come ai fini della determinazione della base imponibile, e quindi anche della quantificazione dell’ammontare dell’imposta evasa (rilevante per valutare il superamento o meno della soglia di punibilità prevista dal reato di omessa dichiarazione ex articolo 5 D. Lgs. 74/2000), devono essere tenuti in considerazione anche i proventi da attività illecita prodotti dal contribuente.

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